di Carlotta Damiani
Mangiarsi il dolore. L’ho sempre definito così ciò che è successo poi. Come il bipolarismo dei farmaci, rimedi e veleni insieme, un vero processo farmacocinetico: assorbimento, distribuzione, metabolismo. Ma l’eliminazione? Il dolore, da qualsiasi evento scaturisca, non lo si espelle, anche quando si crede di farlo. Si finge vano tentativo di allontanarsi da quanto è stato, di riprendere una linea retta come se quella non fosse mai stata intersecata da una incidente. Ma la cosa tragicomica sarebbe non raggiungere la consapevolezza che più si cerca di tornare alla propria linea, più si vive sulla sua parallela.
No, il dolore, quando decidi deliberatamente di accoglierlo, offre una sola possibilità: aggiustare se stessi. È questo ciò che ho fatto.
Dire che la mielolesione cambia le carte in tavola è riduttivo: hai un corpo nuovo, che in realtà non è nuovo; assumi abitudini nuove per fare cose che non sono nuove; c’è fuori un mondo nuovo, che non dovrebbe nemmeno esserlo, nuovo, se venisse applicata la normativa sull’abbattimento delle barriere architettoniche; infine, ci sono persone, le quali, però, non ti guardano con occhi nuovi, ti guardano con occhi diversi.
All’inizio ho cercato di gestire tutte queste nuove, preparandomi un fuori che fosse abbastanza parallelo al mio prima, un adattamento strutturale, non rendendomi conto che l’unica cosa che si era rotta, insieme al midollo, e che non poteva essere nuova, adattata, gestita, ero proprio io, dentro.
Se ci penso ora, associo le sensazioni che avvertivo nell’ovatta. Era come se stessi preparando una vita per qualcun
altro, un soggetto X. L’unica traccia di me stessa la trovavo nello studio e, in aggiunta a questo, lasciavo emergere la mia indole indipendente, grazie a Dio. Devo ammettere che, a distanza di nove anni, l’incoscienza di andare a vivere da sola subito dopo la dimissione è stata fondamentale.
Al di là di queste continuità personali, però, sedavo gran parte del mio carattere. Mi sentivo inadatta, col senno di poi più internamente che esternamente, a riadattare anche i rapporti che c’erano stati prima e che, nel durante, avevano preso strade dissestate. Uno fra tutti, quello con la mia migliore amica. Parlavamo lingue diverse e ho iniziato a confondere una nuova dimensione personale con la mia nuova condizione fisica.
Vivevo con precarietà ogni situazione, come se avanzassi di due caselle e prontamente il dado mi facesse retrocedere di cinque, complice una salute altalenante, causa di interruzioni e riposi forzati.
Non so esattamente definire il momento in cui “Carlotta in carrozzina” ha ceduto definitivamente il passo a “Carlotta”. E’ successo tutto lentamente. Di sicuro, un primo segnale è stato “fare il nido” nella mia casa di Ferrara, cercando di viverla come una casa vera, averne cura, insomma crearmi un posto mio. È stato convertire un “essere soli” con “stare con se stessi”: liberatorio, suturante e saturante insieme. Ho iniziato a incanalare all’esterno ciò che covavo dentro, di bello brutto noioso pesante interessante, purché fosse mio.
Ho scelto così di andare a Polistena, con Libera, l’organizzazione fondata da Don Ciotti. Era il 2016, fisicamente stavo male, ed era soltanto l’inizio di una serie di problemi che si sarebbe protratta fino a fine 2018. Campo di volontariato sulla corruzione in ambito sanitario, il che si traduceva in: svegliarsi alle sei e mezza, spietrare agrumeti, sistemare i campi, disidratarsi sotto il sole della Piana di Gioia Tauro la prima settimana di agosto, per poi farsi una doccia, mangiare al volo, e partecipare a incontri con magistrati, giudici, medici, parenti delle vittime di mafia fino alle due di notte. Io, rinunciando volentieri all’unico incarico che avrei potuto rivestire, quello dell’aratro, assistevo i mediatori culturali al poliambulatorio di Emergency.
Prima di trovarci all’incontro di benvenuto, del gruppo non conoscevo nessuno, eppure nessuna occhiata, niente di quanto mi fosse già successo svariate volte in facoltà, ad esempio. Nessuna sensazione di “Cosa ci fa qui?” da miei futuri colleghi (eravamo in prevalenza studenti di Medicina). Nulla, solo una sorta di riconoscimento naturale e reciproco con gli altri, rapporti tra persone. All’epoca fu un enorme: finalmente.
Mi ha aiutato a ridare fiducia agli altri, oltre che a me stessa. Ricordo che sentivo forte la voglia di lasciar percepire all’esterno, a quel mondo nuovo, a quella gente con occhi diversi, che sono una persona. Potrebbe sembrare una banalità, una bella retorica, ma così, ahimè, non è. Durante il mio ultimo ricovero, nel 2017, ho conosciuto persone che non si sentono tali da anni, che non vogliono sentirsi tali perché si sono create una zona di sicurezza all’interno di quella non definizione. Persone per cui ogni giorno è “la disgrazia che ci è capitata”. Ero insofferente, allergica, e allo stesso tempo disarmata.
È stato lì che ho conosciuto l’associazione di cui faccio parte, AUS Montecatone, e con la quale, da qualche mese più concretamente, provo ad aiutare. Il Consulente alla Pari non fa nulla più che portare il suo vissuto e il suo elaborato e dirti: sei una persona, concediti di esserlo di nuovo. Può dare consigli, certo, sulla base di quanto è capitato a lui, su questioni pratiche e quotidiane, sprona a rivolgersi a chi di dovere per quelle di tipo specialistico. Ma soprattutto normalizza.
Le grandi cose, le grandi gesta e imprese che a me raccontavano durante il mio primo ricovero sortivano l’effetto del: e quindi? Se non addirittura mi facevano sentire come se dovessi seguire un percorso già delineato: ora devi andare all’incontro sulle lesioni da decubito, ora alla presentazione dell’allenatore di basket, ora dobbiamo parlare di cateteri, e della carrozzina, della carrozzina ancora, ancora della carrozzina.
“E il resto?”, mi chiedevo, “E il mio resto?”. Il Consulente alla Pari normalizza. Risponde alle domande sulle lesioni da decubito e a quelle sugli ausili, risponde, per quanto può, a domande più intime che l’intera società non è nemmeno pronta ad ascoltare e ad altre verso le quali solo esperienze simili possono aprirti la porta a risposte che, quando sarà, ti darai da solo. Aiuta solo a riscoprire la propria soggettività, lo spirito di sopravvivenza ne consegue con slancio. Il mio slancio, nel corso di questi anni, è stato questo: concedermi di essere me stessa. Forse sarei stata condotta diversamente a questo modo di vedere le cose, con gli anni, con un altro incidente, con altri eventi, non posso saperlo. So però quanto tutto questo male mi abbia fatto bene, perché mi ha dato la possibilità di essere felice per me (dove il per è causale) e con me.
Le elaborazioni interiori consentono una maggior caparbietà per affrontare quel mondo, il più delle volte, impreparato, discriminante con barriere e limitazioni palpabili e non. Fondamentale per me è tuttora inciamparvi, più e più volte, ma sempre a muso duro. La società adora dipingerci come “super”, talvolta pare quasi che più barriere ci sono, più super siamo. Purché non si alzi la voce per i propri diritti, in quel caso il super decade, o viene seguito da epiteti di altro genere.
Ho imparato che siamo perfetti indicatori, per le persone “non super”, di: limiti, soprattutto culturali, paure, in particolar modo di perdita, fragilità, loro, di certo non nostre. La reazione del “Che forza d’animo, io non sarei stato in grado” e concetti del genere, che esorcizzano nei cosiddetti normodotati il senso di impotenza verso l’imprevedibile, aumentano enormemente l’altezza delle barriere culturali e alimentano mostri.
Non siamo disabili, siamo persone con disabilità, la quale “e un concetto in evoluzione e che [la disabilita] e il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella societa su una base di parita con gli altri” (Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità del 2006).
Vorrei, dunque, che ciascuna persona ragionasse su quanto può fare per garantire e garantirsi un mondo accessibile, fisicamente e culturalmente, cosicché, qualsiasi cosa capitasse lei, non ci sarebbe alcun bisogno di normalizzare, cioè rendere normale.
Carlotta Damiani studiava al Liceo classico Maffei a Verona, quando, nella primavera del 2010, pochi mesi prima della maturità, cadde dalla moto guidata dal fidanzato e restò paraplegica. Oggi studia Medicina ed è attiva sostenitrice di Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, con la quale ha partecipato a un campo di lavoro in Calabria nel 2016.