A pochi giorni dalla conclusione delle Paralimpiadi, ci asteniamo dal fare bilanci sportivi, se non meramente cronaca, ma proponiamo invece questo spunto di riflessione.
Ho assistito con interesse all’inaugurazione dei Giochi Paralimpici di Parigi 2024. Le coreografie dell’evento hanno cercato con uno sforzo immaginativo di far comprendere il tema dell’inclusione, come se fosse un’azione di consapevolezza e di confronto culturale. Sarebbe stato forse più efficace introdurre il tema delle barriere, degli ostacoli e delle discriminazioni che impediscono la piena partecipazione delle persone con disabilità, che richiedono investimenti e modifiche di regole e comportamenti: comunque ho apprezzato il tentativo di trasmettere in una coreografia l’obiettivo di raggiungere la parificazione dell’accesso ai diritti e il pieno riconoscimento che tutte le persone, indipendentemente dalle loro caratteristiche, sono parte del genere umano e devono poter godere pienamente dei benefici e dei servizi, valorizzando proprio la diversità umana.
Scrivo queste righe, però, per segnalare ancora una volta la poca conoscenza dei nuovi linguaggi della disabilità dei commentatori televisivi dell’inaugurazione.
Da un lato ho apprezzato la profonda conoscenza della storia, degli atleti, delle discipline sportive paralimpiche, per giornalisti che si occupano in maniera professionale di questo sport. Dall’altro lato, però, pur riconoscendo che finalmente si usano le parole giuste, come “persone con disabilità”, invece dei “diversamente abili”, ho dovuto constatare che i concetti fondamentali della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità non sono ancora stati digeriti.
La Convenzione definisce le persone con disabilità come «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». Infatti la disabilità non è una condizione soggettiva di cui le persone con limitazioni funzionali sono i responsabili, bensì è un prodotto sociale derivante dalle barriere, dagli ostacoli e dalle discriminazioni che la società ha frapposto nei millenni alla partecipazione di persone che avevano limitazioni funzionali nel sentire, nel vedere, nel muoversi, nel comprendere.
Detto in maniera diversa, è la società che disabilita le persone che hanno determinate caratteristiche. Questo avviene anche per altre caratteristiche come il genere, l’appartenenza etnica, la religione, l’orientamento sessuale, il colore della pelle…
Per cui la disabilità non è un fattore soggettivo da attribuire alle persone, ma è fatta di alcune caratteristiche degli esseri umani che in interazione con l’ambiente, con i comportamenti sociali, con le regole delle società stabilite, hanno prodotto, senza tenere conto di tali caratteristiche, esclusione, segregazione e mancanza di pari opportunità. Questa lettura della condizione delle persone con disabilità si è coagulata in un modello medico e individuale che ha attribuito a queste persone la responsabilità di non poter partecipare, relegandole prevalentemente ad interventi sanitari e assistenziali, invece di includerle in tutte le politiche e legislazioni che riguardano l’intera popolazione, con gli appropriati sostegni.
Sentire quindi parlare dai conduttori televisivi di “atleti con disabilità grave” lascia esterrefatti. La limitazione funzionale può essere legata a più funzioni, può essere particolarmente complessa se riguarda la sfera intellettuale, può richiedere – come sottolinea la Convenzione ONU – maggiori sostegni (preambolo j della Convenzione stessa), ma stiamo parlando di quello che lo Stato riconosce come invalidità. E confondere la disabilità con l’invalidità è un grave errore semantico, che veicola ancora una volta una visione distorta di chi siano queste persone, diffondendo a milioni di telespettatori linguaggi sbagliati e stigmatizzanti.
Questo fa capire come ancora, anche all’interno di giornalisti che tutti i giorni trattano di atleti con disabilità, permanga una cultura basata sul modello medico individuale della disabilità, esplicitamente superato dalla Convenzione delle Nazioni Unite.
Più volte, da queste stesse pagine, sono state denunciate le lacune di molti giornalisti della carta stampata, della televisione, della radio, sia nel pubblico che nel privato. Eppure negli ultimi anni sono stati prodotti vari strumenti di orientamento per il linguaggio pubblico o indirizzato al pubblico sui temi della disabilità (due tra i più recenti sono disponibili a questo e a questo link). Sarebbe dunque ora che la RAI, come principale emittente informativa italiana, organizzasse periodicamente dei seminari di aggiornamento sui linguaggi appropriati da utilizzare per le differenti persone soggette a forme di disabilitazione, coinvolgendo i giornalisti di tutte le reti, di tutte le testate e di tutti i canali.
Fonte Superando.it