in foto Giacomo Murari

Sul nostro “L’Informatore”, la socia Valeria Ghidoli, cura una rubrica dedicata alle testimonianze di vita e di lavoro, intervistando soci e non che accettano di raccontare la propria personale esperienza che, senza alcuna pretesa, potrebbe essere di spunto per altri.
L’articolo qui sotto è stato appunto ripreso da una edizione passata del nostro giornalino.

Continuano i racconti delle esperienze lavorative dei nostri associati.

La persona con disabilità deve imparare a mettersi in gioco, pretendendo i propri diritti ma consapevole dei doveri di cittadino e lavoratore.

Spiego a Giacomo cosa mi aspetto da questa intervista, e lui mi racconta iniziando a dirmi che ha riportato la sua lesione a soli 20 anni.

Sì, ero ancora studente allora, non avevo mai lavorato, io e la mia famiglia non sapevamo niente di carrozzine, di disabili… Per cui siamo andati nel panico. Allora i miei amici hanno fatto una colletta, mi hanno regalato un computer, perché il computer sembrava la cosa più accessibile allora, più adatta a me.

In realtà io non ne sapevo niente di computer, non ne avevo la minima idea, non mi appassionava minimamente: a me piaceva stare in officina, fare lavori meccanici… quindi non si era mosso niente dentro di me, finché nell’87, l’anno dopo la lesione, salta fuori un corso di programmazione regionale presso il Don Calabria, rivolto ai disabili fisici, che dovevano avere particolari requisiti: possedere un diploma di scuola superiore, essere disoccupati, godere di una certa autonomia, ma avere una disabilità fisica.

Così ho iniziato questo corso, frequentato da una squadra di giovani come me, che era veramente interessante: si sono formate tre coppie durante questo corso, si sono formate tre famiglie, è stato estremamente positivo.

Il don Calabria era molto organizzato. Alla fine del corso abbiamo fatto uno stage presso le aziende e quasi tutti hanno trovato subito lavoro dove avevano fatto lo stage. Eravamo in 14 e sono finito a fare programmatore di computer in un’azienda in ZAI. Vedi, quando prendi il primo stipendio la vita ti cambia! È stata una bella esperienza, ne ho un bel ricordo.

Ma dopo cinque anni di lavoro si prospettava che se avessi voluto fare il programmatore avrei dovuto ricominciare a studiare, perché i computer sono cosi: una volta che hai imparato, le tue conoscenze diventano in fretta insufficienti e obsolete.

Intanto erano cambiate un po’ di cose anche in famiglia intorno a me e sono venuto a vivere in campagna con la ragazza che nel frattempo era diventata mia moglie.

Quindi – gli dico- una delle tre coppie che si erano formate al corso era composta da te e tua moglie! Giacomo ride.

Sì, e siamo venuti a vivere in campagna e abbiamo aperto un ristorante agrituristico a Sorgà, nel 1996. Mi sono sposato dopo due anni dalla lesione. Il lavoro è importantissimo non solo perché si guadagna da vivere, ma anche perché crea relazioni.

Vivevamo qui in campagna e avevamo una figlia piccola, Caterina. Lei è nata nel ’93. Mia moglie Beatrice e io eravamo tutti e due in carrozzina, non sapevamo niente di cucina, men che meno di cucina professionale; comunque abbiamo resistito un bel po’di anni. Mia figlia è cresciuta in questa situazione, in questo ambiente ricco di relazioni, e la campagna le è rimasta nel cuore, tanto che ora fa la fiorista.

Avevamo una cucina grande, diversa dalle comuni cucine di ristorante. Lavoravamo tutti e due: io avevo forza fisica, Beatrice aveva fiuto per odori, sapori ecc. Ho lavorato principalmente come cuoco nell’azienda di famiglia; ma poi, come titolare, assumi tanti altri ruoli che vanno dal contabile dell’azienda agricola al consulente spirituale/psicologico dei dipendenti, operai agricoli compresi (ridiamo insieme).

A volte – prosegue- mi agitavo molto, alzavo la voce, poi con gli anni e l’esperienza si acquisisce sicurezza e si è più rilassati, e le cose sono andate meglio.

Dopo 15 anni però è subentrata una crisi famigliare totale, come una bomba atomica, e ho chiuso l’attività (Giacomo non vuole entrare nei particolari, non siate curiosi). Lavoravo comunque qui in azienda, ma come disoccupato. Un amico mi ha tirato dentro la sua azienda di progettazione elettronica con la qualifica di Quality manager, nell’ambito della certificazione della qualità: è una cosa complicata che si fa davanti al computer (scrivere documenti ed elaborare dati). Questa volta però non ero indipendente, ero a busta-paga.

Però mi andava bene; occorre una certa cultura per fare l’imprenditore, devi generare profitto, e io nella mia azienda non c’ero riuscito. In questo nuovo lavoro di Quality manager sono durato circa 5 anni, finché a novembre del ‘22 ho dato le dimissioni perché l’ambiente lavorativo era diventato ostile. In questo caso essere disabile non mi ha avvantaggiato: se ti licenziano hai diritto alla disoccupazione, ma, se sei disabile, non possono licenziarti.

Così ho dovuto dare le dimissioni. Ma avevo per fortuna un piano B, che riguardava il GALM.

Il GALM?!?- gli chiedo. Giacomo mi ricorda un incontro al Centro Tirtha in cui era presente anche Corrado Creston, che parlava della sua AddValue.

– racconta- ho fatto un corso di un mese, ho avuto modo di vedere che sono persone molto serie; e mi hanno assunto. Ora svolgo questo lavoro di programmatore di computer, che spero di poter fare a lungo. Qui mi trovo benissimo, ho scoperto di essere ancora in grado di farlo.

Scherziamo sul fatto di “sfruttare” la sua abilità anche per l’associazione, ma a quanto capisco il suo è un lavoro molto particolare che non prevede la manutenzione del p.c.

Quindi è stata una sfida ricominciare, cambiare totalmente modo di pensare. Ho imparato nuove cose: lavorare in un’azienda è totalmente diverso che lavorare in un’azienda di famiglia. Questo mi ha richiesto coraggio, ma la necessità è un grande motore, e ti spinge lontano. Ogni situazione è diversa, io sono stato anche fortunato.

Gli chiedo perché nell’altro lavoro l’ambiente era diventato tossico. Mi spiega che era cambiato il management.

Prima i titolari erano italiani, ci conoscevano, ci tenevano al personale e anche a me; ma poi l’azienda è stata acquisita da un gruppo svizzero, e il cambio di gestione per me è stato fatale. La disabilità non c’entrava nulla, non ci si capiva con i capi. Una volta che riesci ad arrivare in ufficio, sul lavoro conta la tua testa, indipendentemente dalla carrozzina. Sì, è più facile cambiare lavoro che restare nella stessa azienda in condizioni diverse.

Gli chiedo se la disabilità abbia influito o meno.

A parte il lavoro in famiglia, gli altri tre li ho trovati grazie alla disabilità: lavori veri con contratti seri. Ho la fortuna di guidare la macchina, mi permette tutti i giorni di raggiungere il posto di lavoro. Però la carrozzina (la carretta, come la chiama lui) mi ha aiutato.

AddValue sostiene e sponsorizza la ricerca sulle lesioni dei midollari. In carrozzina ci sei solo tu, mi hai detto, anche se ci sono altri disabili di altro tipo.

Sì, al momento sono l’unico in carretta. Alle aziende non importa niente di assumere persone disabili, ci sono pochi controlli e pochissime sanzioni. Cinque anni di disoccupazione, iscritto alle liste del lavoro, ma non mi è mai saltato fuori niente, se non collaborazioni di un mese, oppure quattro ore settimanale, o cose così. Devi cercare tu le situazioni, devi avere costanza e fortuna, perché il sistema non ti aiuta molto.

Be’, in quei cinque anni di disoccupazione però è successo qualcosa di bello…

Sì, non c’entra niente col lavoro, però…

E dai, Giacomo, non essere reticente!

Va beh, come ho detto, avevo passato momenti difficili. Mi ero separato, e poi in quei cinque anni ho trovato… Maria, la mia compagna.

Siamo al telefono, ma non ha scampo. Avverto una luce nello sguardo nel pronunciare questo nome. Ecco un’altra bella storia da raccontare… in un’altra rubrica!

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