Continuano i racconti delle esperienze lavorative dei nostri associati.
La persona con disabilità deve imparare a mettersi in gioco, pretendendo i propri diritti ma consapevole dei doveri di cittadino e lavoratore.

Telefono a Derina in una buia serata di luglio, con un temporale in corso – qui a Verona – e là in arrivo – a Roveredo di Guà, in quel di Cologna Veneta. È preoccupata perché il marito è proprio in città, a Verona, dove sta facendo scuola guida per prendere la patente da camionista. Vede le nubi addensarsi in quella direzione. Il temporale, dopo tanti giorni di calura, mi ha distratto, e sono qui col telefono in carica all’unica presa in questo momento non utilizzata dai ventilatori.

Derina mi racconta: al momento dell’incidente, 19 anni fa, lei lavorava in un supermercato, al banco macelleria. Era brava, svolgeva il suo lavoro con passione, ma purtroppo questo era incompatibile con la sopravvenuta disabilità. Dopo un anno ha deciso di licenziarsi. Ma una brava non si molla, e il proprietario del supermercato ha cambiato la postazione della cassa per ospitare la carrozzina, e quindi ha di nuovo assunto Derina offrendole le mansioni di cassa. Derina è rimasta lì un anno, poi si è resa conto che anche questo non faceva per lei: le sue spalle e la sua schiena soffrivano.

Allora -mi racconta- la merce non era dotata di etichettatura, dovevo sollevare le casse di acqua e dalla posizione seduta era molto faticoso. Non ci si pensa mai, è diverso sollevare qualcosa se si può far conto sulle gambe; altrimenti il peso ti sbilancia, in avanti, di lato, e ne risente tutto il resto della muscolatura. Quindi ho fatto domanda per un collocamento mirato, in base alla L. 68, e mi hanno offerto un lavoro amministrativo presso l’Ospedale di Borgo Trento.

Ma da Borgo Trento, Verona, a Cologna Veneta ce n’è di strada!

Sì, un’ora per andare e un’ora per tornare. Perciò nel 2007 ho ottenuto un trasferimento al Distretto di San Bonifacio. Quindi sono stata collocata all’ufficio Protesi dove sto tuttora, da diciassette anni.

Come ti trovi lì?

Mi trovo benissimo! Tutti fanno affidamento su di me, il lavoro mi piace e ho un buon rapporto con i colleghi. Il rapporto con loro è fondamentale, soprattutto per noi che siamo sensibili agli aspetti relazionali.
Il lavoro quindi va bene dal punto di vista fisico, i carichi di lavoro sono adeguati e non devi sollevare nulla. Ma raccontami di tutto il resto, com’è stato l’inserimento? Hai vissuto dei pregiudizi o ti sei sentita accolta?
Mi sono sentita accolta fin da subito, come una persona normale. Certo, ci è voluta qualche accortezza: ad esempio, posso aver bisogno di aiuto in archivio, per tirar giù i faldoni. Ma sono tutti attenti, mi hanno anche assegnato l’ufficio più vicino al bagno, per favorirmi nell’accesso. Inoltre, ho il permesso di parcheggiare sotto la tettoia, nel giardino dove ci sono gli ulivi, in modo da potermi proteggere quando piove mentre smonto e rimonto la carrozzina.

Insomma, non hai avuto difficoltà…

Mah, dipende anche dal carattere, da come prendi la vita, questa nuova situazione… non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di restare a casa! Appena mi si presentò l’occasione, accettai, riservandomi casomai di cambiare mansione, ambiente, colleghi…Così ora lavoro all’Ufficio Protesi.

Gli utenti si sentono maggiormente capiti avendo di fronte una persona con disabilità?

In realtà devo fare riferimento alla normativa di base, non posso fare favoritismi. Però, certo, capisco la situazione, mi dò da fare per offrire indicazioni adeguate. Ho la consapevolezza che se uno arriva lì, è perché ha un problema, e cerco di evitare di rimandarlo indietro: so che sarebbe una fatica in più; magari, se manca un codice, tento di mettermi in contatto col medico specialista che ha fatto la prescrizione. Poi, una volta ricevuta l’autorizzazione, la persona viene indirizzata alla Sanitaria o al Magazzino Ausili. Fino a qualche anno fa ricevevo io stessa le persone allo Sportello, ma dopo il Covid hanno appaltato il servizio. Così ho meno contatti con l’utente, eventualmente chiamo se devo risolvere un problema, o sono le mie colleghe stesse che mi convocano allo sportello per dare le indicazioni del caso.

E la fatica? Lo stress?

Il mio è un lavoro di testa. Ci sono giorni in cui va tutto bene: le pratiche sono a posto, tutto è stato prodotto nei termini, ecc.; altri invece in cui ci sono moti problemi da risolvere perché magari mancano i codici o altro. Esiste anche il caso in cui la pratica non può andare avanti per mancanza di requisiti: ad esempio, l’utente chiede un ausilio particolare in quanto invalido civile. Ma l’invalidità civile non è esaustiva, non dà diritto a tutto, e questo la gente a volte non lo sa.

Capisco. Ad esempio non è che a me, con lesione al midollo, spettino per diritto apparecchi auricolari….

Esatto: per questi occorre la visita, la prescrizione, ecc. Bisogna seguire la procedura prevista. A volte gli utenti si arrabbiano di fronte a un rifiuto, occorre spiegare molto bene e avere pazienza.
Quindi il tuo lavoro consiste non solo nella gestione delle pratiche in sé, ma anche nella gestione dello stato emotivo delle persone.
Certo! Fino a tre anni fa gestivo anche tutto il monouso, che comporta una notevole presa in carico: da un lato è destinato a pazienti con patologie importanti, dall’altro si deve far riferimento al nomenclatore nazionale, a decreti regionali, etc.

Molta precisione, quindi.

Sì. Indipendentemente dalle patologie, che siano più o meno gravi, si fa sempre e comunque riferimento alla normativa del nomenclatore tariffario.

E l’orario di lavoro?

L’anno in cui dovevo recarmi alle fisioterapie avevo iniziato usufruendo della legge 104, con i tre giorni al mese di permesso, per cui avevo due giorni lunghi mentre in altri giorni finivo mezzogiorno, compreso il sabato mattina. Ma nel 2011 è nato Samuel, e dall’Ufficio Personale mi hanno suggerito di tramutare la 104 in riduzione oraria. E così ho fatto. Ora mi trovo molto bene: lavoro tutti i giorni 5 ore 12 minuti, e ho anche la flessibilità nell’orario di entrata, a recupero.

Derina poi chiede di me, ci scambiamo un po’ di notizie sulle nostre vite, sulla nostra disabilità, sulle pratiche necessarie alla vita di tutti i giorni. Mi racconta che, nonostante siano 19 anni che è in carrozzina, le sue gambe appaiono ancora toniche, forse perché fa uso di tutori che le permettono di stare in piedi pur usando il deambulatore. Mi racconta della sua riabilitazione a Perarolo di Arcugnano, nel Vicentino, quando aveva solo 25 anni. Condividiamo ancora qualche pensiero sui figli, sulle difficoltà della scuola, sull’adolescenza che avanza, i rapporti che cambiano… Scopriamo che il nostro è uno scambio generazionale: io ho l’età di sua madre e potrei essere la nonna di suo figlio. Ci lasciamo quindi con la promessa di risentirci in altra occasione.

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