Disabilità: la sfida di Giovanni Cupidi (con l’amico Jovanotti) La biografia «Noi siamo Immortali» di Gian Antonio Stella
«Cosa dirvi? Si accettano miracoli». Ci voleva lo spirito di Giovanni Cupidi per rispondere con rispettosa ironia alle suore che erano andate a trovarlo offrendosi di puntare di su lui per la beatificazione di suor Rachele Lalia: sul percorso della canonizzazione «servirebbero miracoli per far sì che diventi venerabile e poi beata, sino a Santa». La bella notizia era dunque questa: per strappare quel miracolo le monache avrebbero centrato tutte le preghiere a suor Rachele su di lui: «Abbiamo saputo che non esiste cura per la tua condizione…».Da qui, appunto, il sorriso: «Grazie, s’accettano miracoli».
È una quercia piantata in terra palermitana, Giovanni, per raccontare la sua vita, la sua disabilità, i suoi problemi, senza piagnistei. Senza invettive al cielo. Senza insulti verso gli altri. Neppure quelli che non vogliono vedere ciò che han davanti. Come quella volta che, affetto da paralisi totale («Mi serve aiuto pure per metter gli occhiali sul naso») andò a votare: «Non appena mi mostrai intenzionato a entrare in cabina con mio padre, affinché esprimesse per me la mia preferenza sulla scheda elettorale, notai un accenno di panico sul volto del presidente della mia sezione. “Giovanotto, questa cosa non si può fare”, disse. “Ma se non mi aiuta qualcuno”, risposi, “come pensa che io possa votare?” “Beh, hai ragione”, osservò, “ma io non so bene… insomma, ci vorrebbe un certificato medico”. “Scusi, l’evidenza non le basta? Non vede che non muovo le mani?”, replicai. “Ho capito”, disse agitando le sue, “ma io non posso farti votare. Portami un certificato che attesti la tua disabilità”».Deciso a non darsi per vinto, il ragazzo chiamò i carabinieri. Bastava un po’ di buon senso…
È imperdibile, il libro «Noi siamo Immortali», scritto da Giovanni Cupidi con Veronica Femminino. E merita tutte le parole spese per lui, nella prefazione, da Lorenzo Cherubini,(in arte Jovanotti ndr) che conosce da anni il giovane palermitano, tra gli animatori della rivolta dei disabili: «Lo apro, inizio a leggere, scopro pagina dopo pagina che è molto bello, ben scritto, avvincente, commovente, e vola via…».
Due storie
Una storia che racconta due storie. Quella della «prima vita», di «un bel ragazzone alto e robusto che in una sera di quasi primavera realizza un suo sogno: entrare in uno stadio, e che stadio!» San Siro! Insieme col papà Gianfranco, docente di Medicina interna e Geriatria all’Università di Palermo. Per vedere dal vivo una partita di Coppa Uefa, Inter-Atalanta. Un tredicenne allegro, sportivo, sano. E poi la storia della «seconda vita» iniziata il 18 luglio 1991, tre settimane dopo aver passato gli esami di III media: «Mi svegliai quella mattina con un dolore lancinante all’altezza della scapola destra, che avevo già avvertito la sera prima ma che avevo sottovalutato, attribuendolo a una lunga partita di tennis che avevo giocato quel giorno stesso o a un colpo di freddo (ero stato davanti alla tv prima di andare a dormire con il ventilatore al massimo). Un dolore terribile che ancora oggi ricordo perfettamente».
Come una bambola di pezza
A casa da soli, nella villa di campagna di papà, la mamma uscita per commissioni, Giovanni e la sorella Chiara vengono presi dal panico. È una cosa seria. Serissima. Arriva la madre, chiamano il padre in ospedale. «Ero attento a quanto avveniva nel mio corpo ma non riuscivo a capirlo poiché non assomigliava a nulla che avessi sperimentato in precedenza. A un certo punto iniziò a mancarmi l’aria e chiesi a mamma di farmi la respirazione bocca a bocca. Dopo, il buio. Fitto, nerissimo». Non si saprà mai la causa della coltellata a tradimento alla «prima vita» di Giovanni. Un virus, probabilmente. Ma quale? In due ore il ragazzo perde ogni capacità di muovere un muscolo, non riesce più a respirare da solo, perde l’uso della parola che riavrà dopo molto molto tempo, viene inghiottito in un gorgo che cambierà la sua esistenza: «Come fossi diventato una bambola di pezza… Ero un ragazzino che scoppiava di salute. Diventai, e lo sono ancora, un caso di studio».
Stare seduto
Non molla, però. Non molla: «La conquista più grande fu quando, dopo mesi trascorsi a letto, potei cambiare posizione: mi misero seduto su una poltroncina di pelle verde con le ruote. Mio padre mi aiutava sostenendomi e dicendomi di non aver paura. Mia madre mi osservava con commozione e orgoglio per la mia tenacia. Io finalmente facevo una cosa normale: stare seduto». Poi la rieducazione, le mani sapienti dei fisioterapisti, la prima minestrina («senza sale, olio o sapore alcuno, ma a me sembrò il piatto più succulento…»), il fastidio crescente per «le occhiate di pietismo», il ritorno a casa, la litania burocratica per avere un montacarichi («a me venne recapitata una scala a chiocciola e al destinatario della scala il mio montacarichi»), la decisione di riprendere gli studi in un istituto paritario: «Ogni anno gli esami di idoneità all’anno successivo erano una enorme sfacchinata». Gli strumenti per stare al passo: «Usavo un caschetto collegato a un’asticella che mi permetteva di digitare sui tasti muovendo la testa…». Fino alla maturità con 60/60. E infine l’università, Scienze statistiche ed economiche, con la laurea a pieni voti: «L’adolescenza mi è passata sotto al naso mentre io ero impegnato in tutt’altro, ovvero a capire come sopravvivere a quanto mi era accaduto».
La lettera a Ciampi
Le delusioni… Come la risposta alla lettera mandata da Gianfranco Cupidi a Carlo Azeglio Ciampi: «Mi chiedo: siamo anche noi cittadini italiani? Perché altrove le persone con disabilità non autosufficienti vengono assistite e in Sicilia, invece, vengono lasciate alle cure delle famiglie o di pochissime persone di buona volontà?». Reazione: l’insipida missiva prestampata di un burocrate… Incoraggiamento… Conforto…
E invece, come avrebbe insistito a pretendere Giovanni – col suo blog, le proteste di piazza, il comitato Siamo Handicappati-No-Cretini, le lettere incendiarie – i disabili come lui di altro hanno bisogno: passi concreti, norme, finanziamenti. Per permettere ai non autosufficienti di vivere: «Siamo tutti nella stessa situazione, cioè accuditi solo da amici e parenti senza che le istituzioni, contrariamente a quanto prescrive la legge, si preoccupino del nostro futuro».
Barriere burocratiche
«La politica si comporta spesso in modo vergognoso, furbo e arrogante nei confronti dei singoli cittadini, costruendo barriere burocratiche più insormontabili ancora di quelle architettoniche», scrive ancora Lorenzo Cherubini, «e lo fa con la coscienza certa che le persone si volteranno dall’altra parte quando non sono coinvolte direttamente». Sanno, quei governanti distratti, «che un tweet vale più di una legge, che un sorrisino e una battuta al momento giusto tolgono le polemiche di torno...». Ma questo «è un comportamento tremendo».
Tratto dal Corriere della Sera