LA RIABILITAZIONE
Viaggio tra fattori, cause e circostanze che condizionano il difficile lavoro dei riabilitatori
Ogni volta che devo affrontare il tema della riabilitazione… devo ricominciare da capo. Non perché non ricordi più cosa significhi il termine stesso, ma perché vorrei ogni volta cercare di dare una argomentazione diversa, alla luce degli anni che passano e del mutare delle condizioni sociali ed ambientali.
Il termine in sé non è difficile da decifrare: ri-abilitare. Rendere nuovamente abile, restituire alla persona nuove abilità. Diverse da prima, complementari, leggermente differenti, in alcuni casi uguali a prima. Rendere in qualche modo possibile, in tutto o in parte, ciò che il trauma, la malattia, hanno tolto. Fine del capitolo sulla riabilitazione! Fin qui, dunque, parrebbe tutto chiaro: basterebbe avere strutture, tecnologie, persone capaci di trasformare la disabilità in una abilità… ed il gioco sarebbe fatto. Si possono elencare molte attività, rivolte ad esempio nei confronti delle persone con lesione midollare, che possono servire a questo scopo: la riabilitazione motoria, quella occupazionale, quella respiratoria, la ricerca dell’ausilio migliore. E poi la riabilitazione sfinterica e altro ancora. Ultimamente la comparsa dei robot ha poi determinato nuove spinte e nuove speranze.
Si possono citare i posti dove abitualmente si svolge la riabilitazione: l’unità spinale con i suoi team di cura e di supporto, le palestre specializzate; gli spazi esterni, i luoghi di vita delle persone etc. Ovviamente ogni capitoletto meriterebbe una spiegazione a sé. Ma basta accendere internet e si trova tutto. E allora cosa potrei dire sulla riabilitazione? Proviamo a tracciare un percorso diverso.
Incontro tra due attese
Intanto la riabilitazione, a qualsiasi patologia si rivolga, è un incontro (qualche volta uno scontro) tra due attese: quella della persona e dei familiari, e quella dei professionisti. I primi, quasi sempre e lungamente, auspicano la guarigione e manifestano l’incredulità di fronte alla pochezza prognostica dei secondi. I quali, a loro volta, non sono portati a credere nei miracoli e non mancano di sottolineare i limiti dell’impresa riabilitativa. Questa dialettica non è certamente nuova e pervade da sempre l’incontro tra chi ha perduto qualcosa del suo corpo e i tecnici cui chiede di restituirglielo.
Ricercare un equilibrio (tecnico-scientifico ed umano) tra queste posizioni è, fondamentalmente, il primo e forse più grande sforzo della riabilitazione che deve essere “aperta sul mistero del recupero” (in parte sono ancora sconosciuti i meccanismi che operano sul ripristino delle funzioni) ma deve principalmente educare al “diverso” che si affaccia, tenendo conto delle individualità. È un lavoro lento, che si basa sulla sensibilità, competenza, chiarezza di chi somministra le cure e che deve partire dall’idea che l’inganno non serve a nessuno.
Il percorso del recupero
Progettare un percorso di recupero significa partire da dati concreti: la lesione, l’età, lo stato di salute generale, la casa, il contesto familiare, quello economico sociale e culturale. Sono tutti fattori equivalenti? Certamente no, ma indubbiamente in grado di influenzarsi tra di loro. Sulla lesione (il cosiddetto danno primario) nulla può chi riabilita né, di per sé, nulla può l’interessato. O meglio, il suo organismo, il suo sistema nervoso potranno reagire diversamente da quelli di un altro ma l’individuo non è in grado di modificare volontariamente le strutture danneggiate. Si potranno facilitare i movimenti, inventare movimenti trucco, studiare compensi motori e non, migliorare gli aspetti gestionali della vescica, curare gli effetti collaterali della lesione (ipertono, dolori neuropatici, etc), prevenire ulteriori complicanze (danni secondari) etc, ma difficilmente si potrà influenzare la capacità rigenerativa intrinseca all’area lesionata.
E pur tuttavia, questo, in realtà, è già molto: quasi sempre (e sottolineo quasi) è più facile in persone giovani o relativamente giovani. Nella sua banalità l’affermazione potrebbe risultare discriminatoria ed offensiva. È del resto indubitabile che le capacità di recupero (siano esse rigenerative o compensative) sono più vivaci nelle persone giovani. Una stessa lesione ad età diverse di solito produce effetti differenti. Ma soprattutto il progetto post ospedaliero può essere diverso necessitando, nel caso di persone meno giovani, di un più radicale intervento assistenziale.
Una tematica che serpeggia tra tutti gli attori del recupero è quella del tempo: quanto tempo ci vuole? Sei mesi? un anno? Non si può mai dire… finchè c’è vita c’é speranza! Non c’è dubbio che per riabilitare una persona con un danno neurologico (e midollare nello specifico) ci vuole tempo. E non esistono canoni precisi: ci sono persone paraplegiche che in tre mesi fanno tutto il percorso, altre che impiegano sei mesi, altre ancora di più. Ciò che delimita il “tempo del recupero” è ancora una volta la gravità del danno. Davanti ad una lesione completa non c’è ragionevole spazio per pensare ad una modifica della situazione. Infine, la questione se la riabilitazione (intesa come esercizi, come frequentazione ospedaliera, come percorso sanitario) debba durare sempre. È un diritto! Ancora una volta le argomentazioni possono essere molteplici, ma sta di fatto che ogni percorso sanitario deve finire. A meno che la persona con disabilità non voglia considerarsi cronicamente malata. Ma questo contrasta con la vera riabilitazione. Di riabilitazione in senso stretto c’è bisogno: in caso di ricadute, peggioramenti dovuti all’insorgere di altre patologie, interventi che alterino o modifichino gli equilibri raggiunti.
Ma il processo di recupero si interfaccia pesantemente con le “strutture sociali”. Non mi riferisco al noto problema delle barriere architettoniche, ma piuttosto a tutti i fattori ambientali che condizionano negativamente o positivamente (facilitatori) quanto il paziente ha appreso o recuperato. E questi sono la famiglia, il lavoro, l’abitazione, il quartiere, i mezzi pubblici, le norme etc. Se pensiamo all’ipotesi di un recupero completo o pressoché tale… tutto sommato l’ambiente pesa poco: la persona tornerà nella condizione di prima, con i suoi problemi esistenti. Ma se la persona dovesse rimanere significativamente disabile è chiaro che avere o non avere le scale, il bagno, l’auto etc; avere o non avere una famiglia alle spalle o comunque persone di riferimento; vivere in un ambiente vivace oppure avere come opzione la casa di riposo… tutto questo farà la differenza. Da qui la necessità costante di interfacciare il percorso riabilitativo con la modifica dell’”ambiente”. È una lotta culturale che segna il passo, nonostante leggi ad hoc e tante favorevoli dichiarazioni.
I risultati
La riabilitazione è, di per sé, una restituzione. Quanto verrà restituito alla persona dipenderà dalla lesione, dalla persona stessa, dai tecnici, dalla famiglia, dall’ambiente. L’equilibrio tra questi fattori va ricercato all’interno del peso specifico degli stessi: più saranno gravi gli esiti, più si dovranno adattare i fattori “ambientali”. Quanto prima questi si adatteranno tanto più proficuo sarà l’iter riabilitativo. Le lunghe permanenze di persone in ospedale per dar modo di adattare la casa, dirimere questioni familiari, ricercare una nuova abitazione etc sono certamente utili alla persona ma non rispondono all’ideale riabilitativo. Anzi, talvolta non sono neppure utili alla persona.
Il prima e il dopo
Riabilitare significa anche riallacciare fili, riannodare percorsi del prima e dell’adesso. Trovare una sintesi tra la persona di prima con le sue abilità, stili di vita, attese, e la persona di adesso, spesso (nel caso delle lesioni midollari sempre) con le stesse caratteristiche e con i medesimi pensieri ma in un corpo diverso. Altre volte sia la mente che il corpo sono diversi rispetto al prima. Operare una sintesi è un cammino faticoso che parte prima di tutto dal confronto tra il “chi ero” e “chi sono”. Una specie di “passaggio del Mar Rosso”. Su queste basi si può aprire il progetto del “chi sarò”. Su questo terreno, molto personale e doloroso, la fatica più grossa spetta alla persona interessata che può -deve- essere certamente aiutata da figure professionali quali la/o psicologa/o, i familiari, il personale tutto della riabilitazione, il confronto con situazioni analoghe.
La riabilitazione e il contesto socio-familiare
La riabilitazione, quella tecnica, mette le basi per il recupero, facilita lo stesso, trova le soluzioni per… corregge il tiro, pone le basi perché la persona si riconsideri sotto un altro profilo, ma non assolve al compito vero/intero della riabilitazione. La vera riabilitazione è quella che viene vissuta quotidianamente nel proprio ambiente, scontrandosi con le difficoltà e trovandosi valorizzati dalle opportunità. Si tratta di mettere a frutto le nuove abilità raggiunte grazie al percorso riabilitativo tecnico per potenziarle, modificarle, al fine di diventare padroni comunque della propria esistenza. La tecnologia in questo aiuta molto ma non si può abdicare solo ad essa. Ogni situazione di disabilità dovrebbe far crescere in senso riabilitativo il contesto nel quale vive. E qui il punto dolens: forse, causa il mutare dello stato sociale, delle condizioni culturali ed economiche, il terreno è oggi meno favorevole che in passato. Le norme sono molte, i diritti espressi tantissimi ma la sensibilità cala e le risorse economiche ancora di più.
Ruolo dell’associazionismo
Su quest’ultimo paragrafo chiudo pensando allo storico ruolo dell’associazionismo. Forse andrebbe aperta una riflessione non tanto sui diritti, ma sulla concretizzazione degli stessi pensando anche all’uso sensato delle risorse alla luce dei cambiamenti epidemiologici, chiedendo magari (parere del tutto personale) meno ospedali ma più servizi, meno ausili (meglio, quelli giusti) ma più opportunità di integrazione, meno burocrazia ma interventi più incisivi sull’edilizia e sulla mobilità, meno cicli riabilitativi o ricoveri ripetuti e più certezza nell’applicazione delle leggi sull’inserimento lavorativo.
Dott. Renato Avesani Direttore del Dipartimento di Riabilitazione dell’Ospedale di Negrar (Vr)
(Articolo apparso sul libro “credevo di non farcela” edito dal G.A.L.M.)