Riprendiamo un articolo comparso sul nostro L’Informatore n. 236 di Maggio-Giugno 2024.
Il Dr. Renato Avesani inizia con una domanda: Perché non se ne può parlare?
Concordo con lui al punto da riproporre il suo articolo che aiuta tutti noi a capire, perché ci spinge a fare una riflessione che riguarda noi stessi.
Tutti liberi di pensare prima e decidere poi per il meglio di noi stessi, ma l’importante è conoscere!

Perché non se ne può parlare?
Da parecchi anni mi informo, studio e ragiono sui temi che riguardano “il fine vita”. Ci si può appassionare anche queste tematiche. Come spesso accade nelle discussioni sui temi “sensibili” in Italia si creano fazioni, dibattiti (rari) accesi, schieramento tra buoni e cattivi. Ci sono poi picchi di interesse cui seguono periodi di stanca dove gli argomenti scompaiono dalle discussioni. Uno di questi temi “sensibili” è appunto quello sul fine vita. Sono ormai parecchi anni (2017) che una legge dello Stato consente di ricorrere alle “Disposizioni Anticipate di Trattamento” (D.A.T.). Nonostante siano trascorsi un bel po’ di anni dal licenziamento di questa legge, poco se ne parla, talvolta se ne parla in modo ingannevole o per agitare lo spettro dell’eutanasia. La riprova è che solo lo 0,4% della popolazione maggiorenne italiana ha fatto il “testamento biologico”.
Partiamo dai termini.
La legge non dice dichiarazioni ma disposizioni. La differenza è sostanziale: dichiarare richiama il parlare, il dire, l’opinare… e si sa, verba volant. Disporre è imperativo, introduce il concetto che chi riceve quelle disposizioni è obbligato a tenerne conto. Per questo forse la legge viene anche chiamata testamento. Ma il testamento è biologico fino ad un certo punto, perché riguarda sì il corpo ed il suo passaggio da vita a morte, ma l’essere uomo è ben più di un corpo, anche nelle fasi finali della vita. Anticipate. Le Disposizioni avvengono prima del momento di passaggio. Cioè una persona può disporre prima, giorni, mesi o anni prima di ammalarsi o di avvicinarsi al momento della morte. E di che cosa possiamo disporre? Dei trattamenti, vale a dire delle cure che desideriamo o meno siano proseguite quando ci troveremo in condizione critica. 
Qui si impongono degli esempi ed altre considerazioni.
I trattamenti sono tutti i trattamenti sanitari compiuti su una persona dietro consenso informato sugli effetti benefici e sui rischi degli stessi. Come si sa, il consenso informato è alla base di ogni trattamento sanitario: nessuno (salvo rare eccezioni di legge) può essere sottoposto a nessun accertamento e trattamento senza la sua volontaria adesione. O senza il consenso dell’amministratore di sostegno o di un tutore. Tra i trattamenti sanitari è prevista anche l’alimentazione ed idratazione quando somministrate con dispositivi non naturali. Questo vale anche al termine della vita o in presenza di malattie gravi.
Un ulteriore concetto mi pare si possa condividere.
Per alcuni, o per molti la vita è sacra, e, in nome di questa sacralità e della adesione alla fede la vita non appartiene alla persona ma è un bene ricevuto. Per questo non se ne può disporre. Tuttavia il mondo è grande, l’umanità varia, il pensiero non è più unico. A questo ragionamento ne consegue un altro: la sofferenza (che non è solo fisica e non è solo il dolore fisico) è individuale, mia, tua, sua. Ognuno soffre si direbbe sul “suo” ed a modo suo. E quando le sofferenze sono importanti, al limite della sopportazione e si accompagnano a stanchezza di vivere per l’impossibilità di trovare spiragli di serenità… come si può obbligare una persona a sopportare in nome di una norma religiosa o civile?
Chiunque può decidere di vivere in qualsiasi condizione di sofferenza. Probabilmente ne riceverà merito agli occhi degli uomini e di Dio.
Ma se uno questo non lo vuole… perché imporglielo?
La legge prevede che una persona possa dunque esprimere se trovandosi in determinate condizioni (e queste vanno precisate) di non accettare le cure tese a prolungare il periodo di sofferenza. A tutela dell’individuo prevede anche che lo stesso nomini un suo fiduciario che, in condizione di impossibilità a rispondere (esempio in stato di incoscienza) il fiduciario possa divenire garante delle manifestazioni della persona. Il “testamento biologico” va depositato o presso gli appositi uffici comunali o presso un notaio. Non ha costi. Può essere redatto in forma scritta ma anche verbale o videoregistrato. Può essere cambiato e ritirato quando si vuole. Se una persona, decide di modificarlo, lo può fare.
Tutte le D.A.T. dovrebbero essere inviate ad un registro nazionale in modo che i sanitari possano consultarle.
Siamo lontani da questo traguardo anche se una quota delle DAT sono state inserite.
E se il medico non è d’accordo di sospendere un trattamento o di non fare un trattamento o un accertamento? Ne può discutere con il diretto interessato o con il fiduciario e, qualora comunque non si trovasse in sintonia e volesse comunque procedere… deve ricorrere al giudice che “peserà” il diritto del paziente e il dovere deontologico del medico.
Parte della legge è dedicata alle cure palliative ed alla necessità del dialogo tra curanti e pazienti.
In ogni caso, l’accompagnamento alla morte deve essere il più lieve possibile, ricorrendo ai farmaci necessari. Quindi, rifiuto delle cure non equivale all’abbandono della persona, ma al suo accompagnamento verso la sua scelta.
Il capitolo dei minori o delle persone incapaci prevede la presenza dei tutori ed eventuale ricorso al giudice.
Perché dunque aver paura?
Non c’è in questa legge nulla di eutanasico: l’eutanasia prevede la volontà di dare la morte a una persona; qui il requisito della volontà non c’è, c’è piuttosto la richiesta di astenersi da trattamenti ritenuti troppo onerosi.
Capitolo a sé è il suicidio medicalmente assistito, che trova i suoi contenuti in una recente sentenza della Cassazione. Ma di questo si potrà parlare in altra occasione.
Ci si può chiedere perché in questi ultimi decenni si sia affacciato il problema dell’accanimento e del diritto di autodeterminarsi. Rispondo con una frase non mia, che cito un po’ a memoria: “le persone hanno sempre più paura di cadere nelle maglie di una medicina acritica, ricca di tecnologia e di ricerca, ma povera di un pensiero rivolto alla comprensione della fatica, della sofferenza, della disabilità”.